Conosco molti professionisti – in molti casi anche amici – che si irrigidiscono quando sentono parlare di personal branding. La loro posizione è, in sintesi, che fare branding di se stessi sia una forma di profonda falsità, e che sentirebbero di tradire la fiducia dei propri contatti nel momento in cui iniziassero a vedersi come un brand.
Stai già facendo personal branding (anche se non fai nulla)
In parte li capisco e ne apprezzo la sincerità. La comunicazione è un processo in fin dei conti razionale e meditato, di certo non spontaneo. Non appartiene al nostro quotidiano. Eppure, tutte queste persone stanno già facendo personal branding. A dire il vero, tutti lo facciamo, costantemente. Solo che non ce ne rendiamo conto.

Con ogni parola, ogni scelta, ogni simbolo, ogni gesto, costruiamo un’immagine di noi stessi presso gli altri. Nel caso dei liberi professionisti, e di chiunque debba “spendersi” in prima persona, questa immagine può fare un grande differenza in termini di risultati lavorativi.
Paradossalmente, però, quando lasciamo che il personal branding avvenga in modo “spontaneo”, quindi incontrollato, trasmettiamo un’immagine di noi distorta e imprecisa, perché mandiamo segnali contrastanti e quindi confusi.
Fare personal branding consapevole significa invece riprendere il controllo di questa comunicazione, mettere a fuoco chi siamo veramente e far sì che questa identità arrivi in modo forte e chiaro a tutti i nostri contatti. Per fare questo dobbiamo prima di tutto imparare a vederci dall’esterno. Poi dobbiamo capire quali sono i touchpoint, ovvero le occasioni in cui gli altri si formano un’immagine di noi: dalla firma di un’email a quello che scriviamo su WhatsApp, dall’immagine che abbiamo su LinkedIn alle scarpe con cui andiamo in presentazione. Tutto è potenzialmente oggetto di branding, e molti sono stupiti di scoprire che non si parte necessariamente da un logo.
Anzi, se posso dirvelo: spesso, in questi casi, il logo non serve proprio.
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