I brand sono monoliti globali, giusto? Non proprio. Questo può essere vero per alcuni grandi brand, ma i più piccoli possono fare una brutta fine se interpretano male la cultura che cercano di raggiungere. Riuscirci dipende da alcune precise precauzioni.
Branding tra culture diverse: come farlo funzionare (una storia vera)
La globalizzazione è stata una forza così potente nelle ultime decadi che ci siamo abituati all’idea che il mondo intero sia di fatto una sola cultura grossomodo omogenea. Non c’è bisogno di dire che i più recenti sviluppi nelle questioni internazionali hanno mostrato che non è così. Vi basterà guardare sotto la superficie del consumismo e troverete ancora forti culture nazionali e regionali con diversi valori e aspettative.
Gli esperti di branding dovrebbero curarsi molto della cultura. Un brand non è definito solo dalle sue guidelines: viene reinterpretato dal contesto che lo circonda, quindi essenzialmente dalla cultura. Potenzialmente, un brand potrebbe essere cose diverse per diversi paesi o regioni.
Esportare un brand, quindi, non è una passeggiata. Ci sono pericoli e opportunità che si dovrebbero tenere d’occhio. Vi darò una panoramica e condividerò con voi una vera storia di branding che mi ha insegnato molto su come collaborare tra continenti diversi.
Branding Problem 1: non essere consapevole della tua stessa cultura
Si dice spesso che la cultura è come l’acqua per i pesci: ci è invisibile esattamente perché ci circonda. Quello che gli altri chiamerebbero “cultura” guardando il nostro paese o la nostra regione, noi lo chiamiamo “normale”. Questo può essere un grande problema per il branding, con due conseguenze.
La prima conseguenza è non fermarsi a pensare su alcune scelte di branding che sono automatiche per la nostra cultura ma non necessariamente per il target. Scelte di wording, di layout o di categorizzazione del prodotto e così via: ci sono così tanti elementi che un brand potrebbe dover riconsiderare. Dimenticarsi di farlo risulterà in una pericolosa disconnessione dall’audience.
La seconda conseguenza è dare per scontati elementi della nostra cultura che potrebbero avere successo presso la target audience. Se per noi è normale essere sempre leggeri e rilassati, non ci renderemo conto di come questo possa essere attraente per una cultura più formale e severa. D’altro canto, se la nostra cultura è basata su precisione e competenza, potremmo non enfatizzarlo a sufficienza quando invece l’audience desidera questo tipo di qualità. Alcuni brand-paese sono profondamente consapevoli dei propri punti di forza, ma queste percezioni non sono sempre aggiornate.
Per risolvere questo problema, l’auto-consapevolezza è fondamentale. Avere qualcuno che guardi la tua cultura dall’esterno, poi, può aiutarti moltissimo ai fini di un buon branding.
Branding Problem 2: non capire la cultura target
Più che un problema, questo è un peccato capitale. Se punti a un altro paese o regione basandoti sui numeri (dati demografici, reddito), vedi solo una minima parte del quadro.
La cultura è difficile da riassumere in un foglio di calcolo, quindi hai bisogno di ricerca qualitativa prima che quantitativa.
Ovviamente è difficile capire davvero una cultura straniera dall’esterno. Anche se tu o la tua agenzia ci mettete molta buona volontà, potreste fermarvi a una visione generica della cultura, che non vi aiuterà a comunicare il brand nel giusto modo. Ancora peggio, potresti ritrovarti con una caricatura della cultura target.
A conti fatti, non comprendere i valori e le aspettative risulterà in un fallimento che sarà difficile da capire.
Questo rende importante trovare un partner locale per “tradurre” il branding per l’audience locale.
Branding Problem 3: non riuscire a comunicare con il tuo partner locale
Quando un brand trova un partner locale per la comunicazione, sorge un nuovo problema: la comunicazione interna. Lo stesso gap che separa il brand dalla sua audience “straniera” può creare distanza tra il brand e la sua nuova agenzia, rendendo difficile trovare un punto d’intesa e fare passi in avanti.
Anche a questo si può rimediare, con il giusto impegno da entrambe le parti. Credo che l’esempio migliore sia la storia della collaborazione tra Sublimio e uno dei suoi clienti più “lontani”: Sakari, un brand giapponese di sake con l’obiettivo di portare il suo prodotto ai consumatori europei. Oltre 13.000 km separano le sedi delle nostre aziende. Ecco come abbiamo fatto funzionare la nostra partnership e il nostro progetto di branding.
Una vera di branding: lavorare con Sakari, il Giappone incontra l’Italia
La collaborazione di branding con Sakari è iniziata con un’email rivolta a Sublimio e firmata Francesco Totti. Sì, Francesco Totti, il famoso giocatore di calcio, era il mittente dell’email che chiedeva la nostra disponibilità ad aiutare il lancio occidentale (Europa e USA) di una sake brewery giapponese fondata due secoli fa. Solo più tardi ho capito che si trattava di un’email reale, inavvertitamente inviata utilizzando un account personale ispirato al noto sportivo.
Dopo qualche scambio email e un residuo di incertezza, ho accolto Arito nel nostro (precedente) studio immerso nella natura romana: un giovane uomo giapponese che aveva vissuto per 3 anni in Italia facendo proprie la cultura e l’ironia. Sorridente, riflessivo e scrupoloso, ho immediatamente avvertito una grande sintonia.
Una specie di colpo di fulmine professionale. Parlando della nostra collaborazione, disse: “let’s have some fun, let’s enjoy this”. Unire divertimento e obiettivi business mi è sembrato da subito folgorante, giustissimo e stimolante. E ha risvegliato in me un nuovo entusiasmo.
Devo ammettere però che ci sono stati anche momenti inaspettatamente difficili. Ad esempio, la messa a punto del contratto ha richiesto 17 settimane di scambi email. Oppure la definizione del logo, che ha richiesto qualcosa come 50 varianti (in genere ne bastano 3 per trovare la giusta direzione). O il design delle label, di cui ho francamente perso il conto delle proposte. E per me — abituato a vedere dei risultati alla prima presentazione — sono stati momenti difficili.
Momenti di sconforto, dubbio e stanchezza. Ma che, come tutte le difficoltà nella vita, mi hanno spinto a migliorare ed insegnato quanto una cultura apparentemente simile alla nostra è in realtà diversissima e richiede sensibilità, cura e rispetto. Il nostro compito non era “semplicemente” creare un logo e degli asset ma costruire un ponte tra l’occidente ed una cultura millenaria e articolata come quella giapponese, rispettandone l’autenticità ma al tempo stesso trovando il modo di parlare al pubblico finale.
E a quasi due anni di distanza posso dire che la collaborazione con Arito e Nihonsakari si è rivelata un’esperienza meravigliosa, ricca di insegnamenti e che ribadisce l’importanza dell’umanità e del dialogo.
A tenere alto l’entusiasmo e la determinazione è stata la piena fiducia e stima che abbiamo vicendevolmente riposto nell’altro, io (con tutti i ninja di Sublimio) e Arito. Perché anche nel business e nel branding, a fare la differenza sono le persone ed i loro valori.
Sublimio e Sakari, nelle parole di Arito
“In Giappone abbiamo un modo di dire: ‘Fraintendersi è normale, capirsi è un caso’. Lo diciamo persino tra giapponesi, perciò quando si parla di comunicazione cross-culturale è normale che sia tutto più complicato.
Quello che ho imparato da questa collaborazione, specialmente quando ci siamo trovati in situazioni difficili, è che usare la nostra immaginazione è la chiave per capire una persona di una cultura diversa e per superare le difficoltà.
Ci sono molte cose che possono aiutare la nostra immaginazione. Le esperienze e le sensazioni mi hanno aiutato molto nei momenti più difficili. Aver incontrato Matteo di persona, averlo visto interagire con altre persone, e anche potermi ricordare le sue espressioni in riunione e nella cena che è seguita mi hanno reso tutto più facile.
Durante la nostra collaborazione abbiamo fatto molte videochiamate a causa della pandemia di COVID-19, e di certo è stato utile. Ma penso che siamo stati fortunati, perché abbiamo avuto l’opportunità di costruire una vera relazione come esseri umani prima di passare al virtuale.”
Pronti a partire?
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