Molti brand sono diventati grandi legandosi a un personaggio che è riuscito a entrare nell’immaginazione del pubblico e a diventare parte integrante della brand identity.
Forse dovremmo imparare dal passato.
Molti brand sono diventati grandi legandosi a un personaggio che è riuscito a entrare nell’immaginazione del pubblico e a diventare parte integrante della brand identity.
Forse dovremmo imparare dal passato.
Basta sfogliare un qualunque annual della comunicazione per trovarci di fronte a schiere di personaggi fittizi diventati il simbolo del brand.
In un certo senso, quando si parla di brand character, sembra di fare riferimento a un’epoca passata della comunicazione: oggi i personaggi sono usati con molta più parsimonia e qualche volta – sembrerebbe – addirittura evitati. Dati molto recenti, però, suggeriscono che legare un personaggio alla propria brand identity sia una scelta non solo saggia, ma quasi obbligata per emergere nella confusione.
I brand character di successo sono tantissimi, e in molti casi sono entrati a far parte della cultura popolare.
Impossibile non iniziare la lista con l’Omino Michelin, uno tra i personaggi di brand senza dubbio più longevi della storia della comunicazione, essendo apparso per la prima volta in un manifesto pubblicitario del 1898. Da allora l’Omino – anche noto come Bibendum – è rimasto per oltre un secolo un asset insostituibile per la brand identity di Michelin, al punto da diventare una parte integrante del logo, ed è entrato di diritto nella cultura popolare (pensate al Marshmallow Man dei Ghostbusters, un chiaro omaggio).
Altro esempio celebre di brand character è Capitan Findus. Più recente (creato nel 1967), è da sempre il simbolo dei brand del gruppo Iglo, ed è anch’egli diventato parte integrante del logo, ma soprattutto elemento fondamentale di ogni campagna e punto di partenza di ogni storytelling.
Altro caso eclatante è quello del coniglio rosa Duracell: dal 1973 un simbolo inconfondibile che siamo ormai abituati ad associare al brand e alle performance delle sue batterie. Tanto efficace da diventare, negli Stati Uniti, oggetto di contesa: la concorrente Energizer riuscì infatti a registrare il proprio coniglio rosa prima della stessa Duracell, tanto che questa può oggi usarlo solo al di fuori di USA e Canada.
Altri esempi celebri sono Tony la Tigre, dal 1952 simbolo dei cereali Kellogg’s, Mastro Lindo, mascotte dell’omonimo detersivo dal 1963, l’omino delle Pringles, le M&M’s, la ragazza di Wendy’s, ma anche il geco di Geico assicurazioni.
Se i personaggi di brand ti sono sempre stati simpatici, i dati ti danno finalmente ragione. In particolare, una ricerca IPSOS del 2020 (“Ipsos Creative Excellence Video-Ad Meta Analysis”) ha dimostrato che i brand character rendono un annuncio sei volte più memorabile rispetto alla presenza del logo e il doppio rispetto a quella di un testimonial, facendone l’elemento di brand identity realmente irrinunciabile.
Un personaggio di brand non solo assicura che le persone riconoscano e ricordino il brand, ma sono in grado di ancorarsi a valori ben precisi che influiscono sul posizionamento del brand stesso. La durata, nel caso del coniglio Duracell, o la freschezza del pescato, nel caso di Capitan Findus.
In poche parole, il personaggio – in virtù della sua ricchezza e profondità – è un simbolo più potente di qualunque altro proprio perché condensa più significati.
Il personaggio è un’entità a cui le persone possono realmente affezionarsi – molto più che al brand in quanto tale – e diventano così familiari e rassicuranti.
Inoltre, rispetto a un testimonial, i personaggi hanno il vantaggio di essere proprietari: mentre il testimonial può eclissare il brand o creare confusione se collabora con altri brand, un personaggio non tradirà mai il brand che lo ha creato.
Essendo l’asset più potente della brand identity, il brand character presenta delle sfide non indifferenti, legate soprattutto alla scala temporale con cui si misura. Non ti sarà sfuggito, infatti, che i brand character di successo hanno sessanta, ottanta o persino cento anni di storia. In molti casi, questi personaggi sopravvivono ai redesign del logo e ai refresh della brand identity. Questo da un lato ne conferma l’efficacia, ma dall’altro evidenzia due complessità.
La prima: un brand character richiede pazienza. Se questa è necessaria per il brand building, lo è doppiamente per un personaggio che aspiri alla familiarità. È forse questo uno dei motivi per cui oggi vediamo pochi brand ricorrere ai personaggi nella loro comunicazione: la pazienza è oggi merce rara, i cicli di marketing sono velocissimi, ed è molto più facile convocare un testimonial che aspettare di crearne uno. Eppure basterebbe un po’ di lungimiranza per capire che l’introduzione di un personaggio nella brand identity è un investimento che costruirà valore nel tempo.
La seconda sfida, più sottile, è l’evoluzione del brand character. I migliori personaggi di brand ci appaiono sempre identici, eppure devono essere costantemente aggiornati, per rispondere a cambiamenti nello scenario.
Un brand character può essere modernizzato, come è avvenuto recentemente a Mastro Lindo o – in modo ancora più netto – al Colonnello di KFC, ringiovanito e trasformato in sex symbol.
La modernizzazione può però riservare anche brutte sorprese: Capitan Findus, ad esempio, è cambiato più volte negli anni (anche per esigenze di casting), restando però sempre un signore bonario. Nel 1998 l’azienda ha testato una versione più giovane, senza la proverbiale barba bianca, salvo ritirarla pochi anni dopo.
In alcuni casi, una crisi impone di sospendere un personaggio: è il caso di Ronald McDonald, la storica mascotte della catena di fast food, messa da parte nel 2016 quando negli Stati Uniti si moltiplicavano gli avvistamenti di clown inquietanti. Va detto, poi, che Ronald era ormai diventato un simbolo della contestazione anti-McDonald’s.
Non bisogna però farsi spaventare: la creazione di un personaggio di brand può essere un viaggio interessante e soprattutto può diventare un pilastro per l’intera brand identity.
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